TESTI CRITICI
Trasparenze
Elisa Rossi dal 2016 sta portando avanti il ciclo di lavori Comparse dove sembra voglia “scrivere” con la pittura un romanzo-generazione in soggettiva. Nelle opere, di piccolo e medio formato, scorrono i volti di amici e conoscenti che popolano la sua quotidianità: i loro tratti non sono perfettamente leggibili perché dipinti volutamente sfuocati, come fossero delle fugaci apparizioni. Questa impossibilità di una visione definita e permanente diviene metafora della loro condizione sociale ed esistenziale: quella di un eterno precariato ancorato al momento presente, a cui è preclusa ogni idea delineata di futuro. In tal senso, va però sottolineato che la Rossi non vuole creare una riflessione sociologica o analitica sul fenomeno; al contrario con queste tele afferma l’adesione ad un gruppo di cui condivide le istanze e le aspirazioni. I dipinti di questa serie hanno una natura progettuale perché l’artista inizialmente costruisce l’immagine attraverso delle fotografie che, per via dell’obsolescenza delle pellicole polaroid utilizzate e dell’esposizione del soggetto ritratto a fonti dirette di luce, appaiono solo parzialmente definite. I quadri riportano così ad un’atmosfera carica di contrasti, volta a creare una teatralità attorno al singolo volto rischiarato che si staglia da un fondale cupo, come fossero le fattezze estatiche di un santo dipinto dallo spagnolo Francisco de Zurbarán o da un artista del Barocco italiano ai tempi della Controriforma; sono attimi di normalità che attraverso la trasposizione pittorica divengono sospesi, aleatori, ammantati di una mistica del quotidiano. In alcuni casi i volti di questi giovani sono maggiormente delineati e visibili, ma i loro sguardi non incrociano mai quello dello spettatore, negando così qualsiasi relazione empatica. Questa incomunicabilità è da sempre uno dei tratti distintivi dei personaggi che popolano i dipinti di Elisa Rossi, tanto che negli anni recenti si è manifestata nei protagonisti della serie Limine, dove è il velo a creare uno spazio di introspezione e di intimità. Emerge un’idea di demarcazione – immateriale – che è presente anche nel dipinto Corredo (2018), che riproduce su tela l’ornato tipico del merletto di Burano. La scelta, inconsueta per l’autrice, di realizzare una tela di così grandi dimensioni la porta ad affrontare la pittura come un processo ripetitivo che diviene una sorta di rito laico in cui trovare una propria forma di raccoglimento.
Carlo Sala, in occasione della mostra Trasparenze, Treviso, 2018
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La dimensione intimistica presente nelle tele di Elisa Rossi colpisce lo sguardo dello spettatore per la forza della sua suggestione. La figura della sorella Giulia, soggetto prediletto dall’artista, si muove all’interno di spazi domestici dove l’occhio dei media non è ancora in grado di arrivare, rivelando i gesti e le abitudini che contraddistinguono la quotidianità.
Partendo dall’immagine fotografica, l’artista trasporta sulla tela l’immediatezza e la spontaneità di un’azione apparentemente irrilevante e la trasforma in un ritratto intimo e profondo. La scelta di mantenere una tonalità uniforme contribuisce a creare un ambiente intimo e rarefatto, all’interno del quale lo spazio privato acquista un’ atmosfera spirituale. L’illuminazione barocca della scena arricchisce l’ immagine di sensualità e dona al soggetto una dimensione atemporale apparentemente opposta allo stesso contesto quotidiano che la caratterizza. Le tele di Elisa Rossi trascendono la precisione del documento fotografico e divengono celebrazioni della memoria e della nostalgia per la transitorietà del quotidiano. Giulia: Manicure e Giulia: Depilazione svelano all’osservatore situazioni intime, che solitamente accadono al riparo da occhi invadenti. L’interessante ambiguità nelle tele di Elisa Rossi è costituita proprio da questa contrapposizione tra pubblico e privato che non cede mai nella sua rappresentazione ad un facile voyeurismo.
Sarah Cosulich Canarutto dal catalogo Vernice, i sentieri della giovane pittura italiana, Villa Manin Centro d’Arte Contemporanea, 2004
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Slow core
Al momento ciò che mi appassiona di più nella musica è legato alla lentezza. Dopo la sbornia di bit negli anni ’90, dopo quelle accelerazioni innaturali della dance elettronica che si collegavano a un mondo di immagini anch’esse artificiali e allucinate, mi pare giunto il tempo di una ritrovata quiete, di una riflessione più lunga e meditata che coinvolga la struttura e la composizione dell’opera. Di norma ciò che accade in ambito sonoro lo si ritrova poco dopo nelle arti visive (non si tratta di cronico ritardo ma di un maturazione fisiologicamente più lenta), e allora ci si accorge che molta della leggerezza e della levità presenti nel suono contemporaneo finiscono per condizionare anche chi si esprime attraverso le immagini. Comporre brani molto lunghi che stentano a decollare –l’esatto contrario del climax ascendente su cui sono costruiti buona parte dei pezzi r’n’r- che si avvolgono come in un bozzolo senza una struttura precisa, che tirano la nota all’inverosimile portandola sino alla saturazione. Questa attitudine musicale –di cui i Low da Duluth, Minnnesota (come Bob Dylan) sono maestri assoluti- corrisponde in certo qual modo a un’arte ugualmente lenta che non inventa immagini pirotecniche ma introduce variazioni minime, talora addirittura impercettibili, determinate non tanto da un avvenimento o da una circostanza ma da un taglio di luce, da una prospettiva, da un’inquadratura. Quando ciò avviene in quel tipo di pittura che per comodo inseriremo nella categoria “figurativa” si ha l’apparente paradosso di una figurazione che tende a rinunciare al soggetto, o almeno lo decentra rispetto alla gerarchia interna dell’opera (e di norma nella pittura d’immagine l’impatto con il soggetto sta al primo posto).
Il lavoro di Elisa Rossi, pur essendosi imposto all’attenzione negli ultimissimi anni, contiene in sé elementi di riconoscibilità immediata che ne fanno un’opera già matura nonostante la giovanissima età dell’autrice. Nei suoi primi quadri compariva una sorta di sintesi di ciò era avvenuto nella pittura degli anni ’90. Un’attenzione allo stile fotorealista al punto che molto spesso i confini tra i due linguaggi apparivano labili e indefiniti. La propensione verso un minimalismo domestico, condito di autobiografismo. Il procedere e l’organizzazione seriale (ogni singolo quadro è parte di un progetto più ampio di cui ciascuno è un episodio). Il desiderio di mettere in scena piccole storie partendo dall’osservazione della propria quotidianità, per così dire “mappando” un universo ristretto ma senz’altro conosciuto, qualità e limite della giovane pittura italiana sovente accusata di essere del tutto disimpegnata e deideologizzata, di non riportare una visione del mondo condivisibile con gli altri ma di essere sostanzialmente ombelicale. Una vicinanza, per stile e contenuti, con i linguaggi della comunicazione mediale, su tutti il video e la pubblicità. L’utilizzo post-performantico del corpo che trasforma la fase preparatoria del dipingere in una sorta di teatro privato, simile a una seduta di autoanalisi o di reciproca indagine, tra il soggetto e l’autore. Tutti elementi che la pittura di Elisa Rossi conteneva e sviluppava nel primo ciclo di opere impostato sulla figura di una giovane donna impegnata in atti ordinari al limite della banalità, come la toilette, la cura personale, la vestizione. Rispetto agli artisti suoi coetanei (o poco più grandi) manca l’effetto shock del corpo nudo e dell’ammiccamento erotico sessuale, sostituito invece da un richiamo alla classicità di un Degas, ovviamente passato al setaccio del postmodernismo.
Nei nuovi quadri, che l’hanno vista impegnata da più di un anno alla realizzazione di questa doppia mostra personale, è successo qualcosa di molto evidente anche se può non balzare subito agli occhi. Il cambiamento non riguarda tanto il soggetto (nella maggior parte dei quadri è rimasta la stessa modella che si attarda sulla medesima gestualità) ma qualcosa che ha a che fare con la struttura interna del quadro. La riflessione è ora piuttosto sul linguaggio, ad esempio sulla particolarità dei tagli di luce che donano all’opera un’impronta caravaggesca; si è ulteriormente abbassata la tavolozza dei colori in direzione di una dialettica bicromia tra bianco e sfumature di terra; il corpo appare meno disegnato e, di conseguenza, un elemento più plastico e scultoreo la cui superficie permette di sperimentare nuove soluzioni pittoriche. La pelle della giovane modella finisce quindi per corrispondere alla pelle della pittura: è qui che si concentrano le nuove intuizioni stilistiche di Elisa Rossi verso uno smagrimento minimale dello stile e uno svuotamento del cosiddetto contenuto. Sono quadri che sempre più tendono alla composizione astratta –come non pensare al perseguimento di un grado zero della pittura cominciato da Morandi e che prosegue oggi in Tuymans?- ovvero a quella paradossale rinuncia al soggetto di cui si parlava all’inizio come carattere precipuo di un andamento lento, appunto Slow Core.
Altri due elementi risultano particolarmente innovativi in queste opere targate 2005. La rilevanza data alla cosiddetta “location”, ambienti neutri che non appesantiscono di ulteriori connotazioni il senso ultimo dell’opera, un raffreddamento interiore peraltro ottenuto per mezzo di tinte calde (e quindi tecnicamente molto interessante). Ma soprattutto l’uso del bianco che si pone come l’autentico punto di fuga del quadro, l’elemento che cattura in primis la vista e l’attenzione del nostro sguardo. Proprio da questa considerazione partono gli ultimissimi quadri di Elisa Rossi: ciò che all’inizio era un dettaglio ora si espande in una sorta di macro dove l’immagine entra solo di lato. Pur partendo da un elemento reale –la stoffa di cui è fatta la biancheria intima della modella- il dipinto compie il suo passaggio lento in direzione dell’astratto, insistendo su un iperdecorativismo non ornamentale né gratuito. In particolare le piccole tele che rappresentano unicamente pizzi e merletti corrispondono al momento più sperimentale di questa nuova fase pittorica, il transito verso soluzioni forse impreviste ma che dimostrano il coraggio della giovane artista veneta nel rinunciare a moduli consolidati, tentando così strade nuove lastricate di rischi ma anche di soddisfazioni.
Luca Beatrice dal Catalogo Accesso Negato, 2006
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Nulla die sine linea
Nulla die sine linea, nessun giorno senza una linea, riferiva Plinio il Vecchio del celebre pittore Apellei. Stando a quanto ci tramanda lo storico romano, l’artista ellenico concepiva infatti la pittura come pratica necessariamente giornaliera e non come semplice lavoro da eseguire liberamente, secondo ispirazione e sensibilità. Nell’opera di Elisa Rossi si coglie lo stesso approccio all’attività artistica come esercizio quotidiano, grazie a cui dipingere si è trasformato in un rito, tanto naturale nella spontaneità quanto religioso nella ripetizione. In una conversazione Elisa mi ha raccontato come il gesto di pulire la stanza ed i pennelli siano le azioni con cui ha inizio quel tempo di odiata solitudine, ma anche di amata fetale sicurezza, che è la pittura. Per l’artista veneta, in quel momento di isolamento autoimposto non c’è altro, nemmeno un posto piccolissimo per altri pensieri. La centralità della pratica rispetto al pensiero – o, se volessimo, dell’agire sul concepire -fa inevitabilmente venire in mente l’approccio di cui ha parlato frequentemente Gerhard Richter, il quale carica l’azione del dipingere con un responsabilità viscerale e allo stesso tempo quasi civile: l’artista “deve credere in ciò che sta facendo, deve impegnarsi intimamente in prima persona per poter praticare la pittura. Una volta che ne sarà ossessionato, egli arriverà al punto di credere di poter cambiare l’uomo con l’esercizio della pittura. Se venisse meno questo impegno morale non c’è nulla altro da fare che isolarlo, perché in fondo la pittura è pura follia”ii.
Non sapremo mai con certezza se Elisa Rossi abbia l’ambizione di cambiare l’essere umano, ma di sicuro non le è estranea la volontà di tracciare delle immagini che raccontano un universo sconosciuto, o che siamo abituati ad ignorare nel frastuono visivo in cui siamo immersi. La sua produzione è riconducibile a due distinte aree tematiche, sebbene intrinsecamente connesse: il ritratto del corpo femminile (di natura spiccatamente iconica) e la rappresentazione di merletti e ricami, gioielli (marcatamente più concettuale). In entrambe si avvertono il pathos partecipativo e un’aura trasognante di natura malinconica, che l’artista inevitabilmente ci invita a condividere.
Le sue donne sono sempre sole, e sono immerse in un’atmosfera di silenziosa e distillata intimità, per lo più in situazioni domestiche come la cura del proprio corpo. Molto spesso di schiena, liberate della necessità del dover essere tutto ciò che il mondo loro impone, sembrano voler mostrare il corpo come ultimo elemento a baluardo della propria natura muliebre, in un frangente di spleen esistenziale che non hanno vergogna ad esibire. La natura malinconica ed l’inequivocabile vuoto interrogativo rendono il soggetto una sorta di intima ed aggiornata versione dell’apoxyómenos, l’atleta che si deterge il sudore dopo la fatica della gara, declinato però in versione femminile, antiretorica e postmoderna. Ma non è narrazione, non sono i piccoli gesti o le azioni di cui sono protagoniste queste donne ad essere centrali, quanto l’abbandono ad una meditata interioritàiii, in una dimensione temporale indefinita, che all’osservatore è concesso di vedere con uno sguardo fugace e rubato. Lo spettatore diventa così inoffensivo voyeur, in cui forse non è estranea qualche forma di compiacimento erotico, che affoga però rapidamente nell’inquietudine e nel male di vivere (benché i possenti cinquecenteschi Prigioni del salone affrescate dal Fasolo, in cui sono collocate le opere concepite per Villa Caldogno, sembrino essere trasformati nei lascivi biblici Vecchioni).
Di tutt’altra natura sono invece le tele che raffigurano ricami, pizzi, merletti e centrini decorativi – ossia pratiche storicamente riconducibili al mondo femminile – nei quali è essenziale il lavoro attento e ripetitivo che raccontano. Ma il soggetto, essenzialmente una natura morta caratterizzata da un’atmosfera di metafisico “suspension of disbelieve”iv, passa in secondo piano rispetto all’esecuzione. A dispetto della virtuosa immediatezza iconica, è proprio il tempo del dipingere il vero elemento creativo ed il motore concettuale di questi lavori: l’esercizio pittorico che richiede continua attenzione rappresenta nei fatti per l’artista il recupero dell’artigianalità propria del mondo femminile, in cui il tempo dilatato rende possibile un silenzioso monologo introspettivo. Inevitabilmente le lunghe tempistiche dell’esecuzione coincidono con i necessari spazi di riflessione, che spiegano come la pittura di Elisa Rossi sia essenzialmente esercizio di intimità. Ma nel contempo questi soggetti narrano le suggestioni di un mondo – quello dei ricami e dei merletti – ormai perduto, lontano, e che sembra appartenere solo alla memoria dei più anziani che sempre più ci sfugge. Attimi che si possono oramai solo evocare assaporando una proustiana Madeleine, o un dolcissimo MonChéri.
Daniele Capra dal Catalogo Mon Chéri – Vicenza 2009
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Cara Elisa,
forse si tratta di rapporti personali, o meglio di rapporti che considerino la possibilità di rappresentare quella sfera silenziosa in cui la vita privata di una giovane donna si compie nei gesti della cura di sé, del silenzio e di un lasciarsi andare che però sembra riveli una qualche consapevolezza di quel che lei (non) viene facendo. Cosa intendo parlando di “una qualche consapevolezza”? Penso alla sensazione dell’esser guardati, o del guardarsi come se si fosse guardati da altri, che la tua rappresentazione, esclusivamente della sfera del femminile, viene da alcuni anni proponendo. Anche la rappresentazione in pittura potrebbe esser intesa, e lo è stato per molto tempo, come un riflettere su di sé, analoga in questo alla funzione svolta dagli specchi, funzione che è oggettiva e ingannevole come può esserlo un riflesso. È possibile vi sia una componente nel tuo lavoro che considera non tanto o non solo i soggetti prescelti, quanto lo stesso mezzo, cioè la pittura, con cui li ritrai?
Rapporti personali: se sono possibili, lo possono essere esclusivamente come una relazione vicendevole fra l’uno e l’altro. Ma sarebbe più corretto dire, rispetto al tuo modo di metterli scena, fra l’una e l’altra, cioè fra simili. In questo senso non credoche il tuo lavoro possa essere pensato, o concepito, “al maschile”; mi pare vi sia una determinante componente di genere che lo anima. E che viene evidenziata dal collimare, su una medesima immagine, di possibile nudità e di intangibilità. Vicinanza e distanza: sono queste le due componenti di una relazione che si riverberano vicendevolmente nei tuoi lavori. La vicinanza è data dall’empatia con il soggetto ritratto, che ne scruta non tanto o non solo la particolare identità, quanto semmai quel punto nel quale mentre si ritrae l’altra persona, in qualche modo sembra si ritragga se stessi, così che si fondano insieme chi rappresenta e chi viene rappresentato. La vicinanza è data dalla sensazione, come spettatore, di entrare per un momento in contatto con un microcosmo solitamente chiuso; di essere stato ammesso, senza vi sia stato alcun gesto esplicito di invito, all’interno di una sfera definita dalle pareti di stanze raccolte, e dalla preclusione verso l’esterno.
Se vi è qualcosa che è tenuto distante dalle tue immagini è proprio l’esterno, il mondo “di fuori”. La luce è forse l’elemento che più caratterizza questa distanza da ciò che vi è “fuori” dalle stanze chiuse. Una luce che sembra generata da candele, o da sorgenti artificiali sempre tenute su un registro smorzato, non da finestre. Una luce fioca che non arriva ad illuminare il posto occupato da chi osserva la scena. Figura questa che rimane nell’ombra, ma non come se si trattasse di persona nascosta o in attesa, quanto semmai di persona che vive in un ambito escluso da quello dove vive colei che è ritratta nelle tue tele. Non vi è continuità di spazi fra lo spettatore e colei che viene osservata; da qui probabilmente deriva la sensazione di distanza che comunicano queste tue immagini, pur riprese da un punto di osservazione così vicino al soggetto. Non vi è nemmeno l’aspettativa che qualcosa muti, che qualcosa accada in queste scene di intimità; la cui sfera trasparente che le avvolge non sembra possibile possa mai venire infranta. Anche la cura che metti nell’esecuzione delle tue figure, l’attenzione nel restituire una giovanile levigatezza delle epidermidi appena sfiorate dalla luce, mi sembrano dei dispositivi che creano una distanza e non una vicinanza. La perfezione può solo essere distrutta, ma non toccata, non avvicinata. Ogni prossimità in questo senso è un inganno, una trappola per ciechi che credono sia visibile e magari a portata di mano; quello che non si sa affatto vedere, e meno ancora lo si può toccare. L’evidenza della perfezione è una soglia che non è oltrepassabile. L’epidermide delle tue giovani donne non la si può nemmeno sfiorare. Mi chiedo però se si tratti effettivamente solo di giovani donne, o se tu non stia piuttosto intuendo, mentre le dipingi, che quello strato sottile di colore che deponi con meticolosa pazienza, non costituisca tutto ciò che vi è da vedere, da sapere, sulla pittura.
Forse mi sono spinto troppo in là nelle supposizioni, forse ho soltanto sovrapposto altre immagini alle tue. Forse il gioco dei possibili richiami (alla luce di Georges de La Tour? A certi nudi femminili di Gerhard Richter?) è causato dai riflessi sugli specchi nelle stanze dove si compone il rito silenzioso della cura di sé delle tue giovani donne. Per questo non mi pare esservi alcuna “teatralizzazione” nelle tue visioni di momenti di intimità, sempre così discrete. Almeno fino ai lavori che finora ho avuto modo di conoscere. Non nascondo che mi pare un passo ulteriore quello che si viene compiendo in questa tua ultima proposta espositiva. Un tentativo di esplicitare la relazione con lo sguardo altrui; una qualche “teatralità” – e qui mi dirai tu quanto io mi inganni e sia fuori strada – nell’ammettere alla visione di ciò che (non) avviene entro le tue stanze chiuse. Ma chi ammetti poi in queste tue stanze? Non certo me, come spettatore, piuttosto altre figure ancora. Quasi non si potesse uscire dal microcosmo della pittura, da questo mondo interno, completamente dipinto; l’unico mondo nel quale è possibile attraversare l’incommensurabilità del tempo. Almeno così mi sembra. O forse si tratta di solo di un inganno più fine, generato da un’occasionale messa in scena degli sguardi intorno alle tue giovani donne? Forse la prossimità apparente degli sguardi non fa che rendere ancora più manifesta l’indifferenza verso ciò che ruota loro per un momento intorno. Si tratta dunque di una simulazione di reciprocità? Forse è proprio questa la domanda che emerge dalla scena che si viene compiendo e alla quale infine mi ammetti affidandomi una parte, concedendomi una volta ancora il ruolo di spettatore. Affinché “io” prenda atto della simulazione di vicinanza che viene “messa a nudo” fra affreschi di scuola veronesiana; dell’inganno di un dialogo che sembrerebbe tessersi, sotto i miei occhi, fra le figure che rivestono gli interni di un edificio palladiano e le tue giovani donne silenziose, provenienti da un altro tempo. Monadi, senza porte o finestre, che non possono volgersi verso un qualsivoglia esterno, spazialmente inteso, e nemmeno verso un altrove temporale. In fondo mi sembra che queste tue figure pronuncino, senza muovere le labbra o cedere alla tentazione di un qualsivoglia gesto, un garbatissimo, quanto inequivocabile, diniego.
Riccardo Caldura dal Catalogo Mon Chéri – Vicenza 2009
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Per un MiniAlfabeto del corpo
Elisa Rossi dipinge il corpo, e raccontando il corpo svela i desideri di una giovane donna. Con una passione e una rilassatezza rari nella figurazione contemporanea. Poche lettere, qualche similitudine, possono forse dire qualcosa in più sulla giovane pittrice e sulla sua ricerca.
B come BAGNO. Come sempre, la scena rappresentata dalla Rossi accade nel bagno. Ma è un bagno stravolto, mai perfettamente delineato, angusto forse ma mai chiuso e claustrofobico. Sembra che non abbia tutte le pareti necessarie, che non finisca, che sia solo la proiezione d’una strana architettura tra il minimal e l’espressionista. È sempre un angolo, una baia, un’insenatura dove finiscono i sogni, le speranze,le attese. E lì sono catturate, poiché non hanno vie di fuga apparenti,dal pennello dell’artista.
C come CHIAROSCURO. Da sempre i lavori della Rossi sono costruiti sul chiaroscuro, evocano un ambiente dove ombra e luce concorrono a creare un’atmosfera ovattata e calma favorevole all’intimità, alla solitudine, al ricordo. Con l’ultima serie di lavori però, il gioco dei bianchi e dei neri si riflette con decisione sul corpo, lo sottolinea, lo mette in evidenza e, in definitiva, lo scopre. Ne accompagna le forme, s’insinua nelle scollature della lingerie, spinge l’attenzione dello spettatore lungo i fianchi, i seni, le gambe. È come se, pur continuando a rispettare, anzi a raccontare, la solitudine, l’artista cominciasse a minacciarla, a violarla, a interromperla. Le ombre degli ultimi quadri si aggirano furtive, aiutano a definire la terza dimensione ma, al contempo, suggeriscono che una parte della personalità delle protagoniste non è scevra da peccati, non vuole essere linda e specchiante. Ora, il chiaroscuro, narra anche la metà oscura, quella che fa paura ma, probabilmente, dà le maggiori soddisfazioni.
D come DOVE. È il titolo della prima personale dell’artista (quasi un anno fa), a intendere il luogo sempre contrito e nascosto dell’azione rappresentata ma anche – anzi, soprattutto – una crema intima che accarezza e culla il corpo femminile. La pittura della Rossi è appunto una crema, è stesa a coprire la pelle, a proteggerla, a preservarla. Fluida, morbida, rinfrescante, segue e sottolinea le membra, modella dolcemente le curve, avvolge e nasconde, pur senza celare, l’intimità. Non è mai d’olio denso e materico, non si ferma mai sulla tela ad appesantirla e rinforzarla; piuttosto, scivola via liquida, quasi impalpabile, e la figura scoperta da ogni dipinto – nonostante le sia rubato un momento assolutamente personale e non condivisibile con alcuno – sembra non subire alcuna violenza, pare trovarsi perfettamente a proprio agio con questo tratto e questa tecnica accondiscendenti e protettivi. Se l’impasto pittorico è una crema, la superficie del corpo disegnato dal pennello non può essere altro che pelle, pronta ad assorbire ogni beneficio, a mettere in contatto interiorità ed esteriorità, a proporsi come ultimo e vero confine della proprietà.
I come INQUADRATURA. Sempre interrotta, sempre tagliata duramente, l’inquadratura delle opere della Rossi è come il frame di un viaggio filmato lungo il corpo. L’artista sembra ammettere che c’è dell’altro oltre quanto inquadrato all’istante, è evidente, ma in questo momento, al momento della visione dell’opera, occorre concentrarsi su questo punto, su questo momento, su questo atteggiamento. Non si sa cosa accada intorno ma quanto visto basta a fomentare una storia, a stimolare l’immaginazione di un avvenimento.
Piccolo quanto si vuole, ma importantissimo per il soggetto ritratto. Sembra che, ogni volta, il mondo possa concentrarsi su una schiena, una coscia, il taglio di un viso.
L come LINGERIE. Sensuali ma caste, nude e coperte insieme, le donne della Rossi (che poi altri non sono che l’artista stessa e, in precedenza, la sorella) sono sempre presentate in un momento di riflessione, durante attimi dedicati alla cura del proprio corpo, dunque in abbigliamento intimo. A dire il vero, a voler essere più precisi, l’abbigliamento sarebbe comunque intimo anche se si trattasse di pullover e giacche a vento, visto l’approccio silenzioso e coinvolgente alla figura, vista la relazione d’amorosi sensi tra tratto e soggetto, ma nei quadri dell’artista i personaggi sono proprio ritratti in reggiseno e mutandine. Se in passato questi indumenti, bianchi e semplicissimi, erano forse solo la superficie e la scusa dove riflettere la luce, con cui creare un lampo bianco e accecante nella composizione, ora – con l’ultimo ciclo di lavori – sono diventati un elemento di primissimo piano della pittura. Se, nei pezzi dedicati alle ragazze, iniziano qui e là a rifiutare l’assoluta semplicità, a muovere l’insieme del quadro con qualche grinza, qualche decoro, qualche belletto, in alcune opere si ergono a unici protagonisti, trasformano il dipinto – prima dichiaratamente ed esclusivamente figurativo – in una sorta di riflessione sul rapporto tra figura, astrazione geometrica e decorazione. Danno alla Rossi la possibilità di mostrare ed esaltare l’abilità nel disegno, la capacità di dar vita alla terza dimensione e a una profondità raffinatissima, suggerita solo da un particolare, una linea curva, una piega. Con la serie dei lavori sulla lingerie, sui pizzi ricamati che grazie alla pittura dell’artista si fanno intarsi scolpiti – in uno stranissimo rapporto di trasformazione da un’immagine realista a un dipinto a una scultura – l’autrice muta anche il modo di raccontare la sensualità: se prima sexy e desiderabile era la dolcezza estrema e raccolta di un corpo presente ma assente, fisicamente vicino (lì, sulla tela) eppure estremamente lontano (la mente proiettata al proprio interno, senza voglia d’intessere alcuna relazione con gli altri), adesso prende piede, seppur sempre discreto, mai aggressivo e volgare, un gioco feticista con gli oggetti, un gioco accattivante di suggerimenti e ammiccamenti che chiama in causa, pur senza mostrarlo, quel corpo che prima vestiva l’indumento. Quel corpo che, scomparso, è forse diventato, se possibile, più invadente.
R come RITRATTO. Prima la sorella, ora anche se stessa. Elisa Rossi parla – mentre tutto intorno esalta la vita di società, l’apparenza, la superficialità – di una donna fatta essenzialmente di sensazioni, di desideri. Per questo non può cercare, per ora, altre modelle: deve conoscere l’intimità, i segreti, la vita per dipingere il corpo, deve aver visto dentro per descrivere il fuori.
S come SOLITUDINE. Più passa il tempo, più le ragazze della Rossi sono meno sole. Non che sia apparso qualcuno all’orizzonte, tutt’altro, ma dagli atteggiamenti, dalle pose, dalle carni va sparendo quella voglia e quell’ansia di isolamento. I quadri non svelano più il bisogno di allontanamento dal mondo ma, piuttosto, solo un attimo di riposo da una vita ora più intensa, piena, forte. Le mani, i pizzi, le posture dichiarano un grande amore per la relazione e, di conseguenza, ogni tanto, una grande necessità di riprendere fiato, di ritemprarsi, di fare il punto con se stessi. Troppa luce e troppo buio nei quadri per non far pensare a una figura che vive, intensamente.
Maurizio Sciaccaluga dal catalogo Accesso Negato 2006
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I quadri di Elisa Rossi raccontano a tinte monocrome un pacato poema dell’ adolescenza come può osservarla uno sguardo di famiglia, cioè lieve e riservato, quanto quello della pittrice che vede la sorella ma anche sè stessa qualche anno prima. E’ una figura silenziosa quella che si aggira dauna stanza all’altra della casa perdendosi in azioni riservate come abbandonarsi sul letto, accoccolarsi su una sedia, rinchiudersi nell’amato bagno per pensose abluzioni. Dei chiaroscuri tingono queste scene di un’ ambivalente atmosfera di rifugio e di gabbia mentre bagliori di luce provenienti da una finestra o dalla televisione accesa rivelano una fisicità estremamente compatta e forte, tutta racchiusa, come è il corpo della prima giovinezza che cova con risolutezza il senso dell’ attesa.
Elisa Capitanio in occasione della mostra “ Sesso Debole?,,”Venezia, 2003
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Figure femminili sono ritratte in momenti di vita privata: in bagno- luogo per definizione chiuso e asettico- intente nelle abluzioni, o accovacciate e attonite:dunque quando l’attenzione è rivolta a sé. In altri casi esse leggono o scrivono un diario, asilo di confidenze non trasmesse, ma anche della riflessione, dell’oggettivazione dei propri sentimenti. Nelle opere più recenti un’altra figura si intravede, si spinge nello spazio pittorico, allunga un braccio fino a toccare il soggetto principale in un prudente accenno di dialogo. I volti sono spesso in ombra, o esterni al bordo dell’immagine, quasi si negassero al riconoscimento, i toni di colore sono sordi, così che lo spazio sembra assorbire suoni e rumori rendendo difficile la comunicazione, a isolare il soggetto rispetto all’esterno, fino ad apparire claustrofobico. Le visuali anguste e le inquadrature denunciano l’originefotografica dei soggetti, mentre l’illuminazione spesso aspra e deformante come quella di un noir cinematografico, carica l’immagine di una sensazione di disagio. La chiusura rispetto all’esterno nelle opere di Elisa Rossi appare come un momento di faticosa definizione dell’identità ma , allo stesso tempo, un modo di rendere pubblico, divulgare e letteralmente esporre il privato- ciò che nelle immagini sembra così gelosamente protetto- rendendone partecipi gli altri. L’ esibizione dell’ identità che matura diviene dunque una forma di comunicazione basata su quanto di solito è segreto e inespresso.
Guido Comin, catalogo 87° Collettiva Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia, 2003
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Elisa Rossi è vicina alla generazione figurativa precedente, con le sue scene quotidiane, le sue riprese di vita casalinga ripetitiva e tranquilla. Ma nella violenza apatica delle inquadrature (puntate spesso sui momenti di igene personale, ossessionate da questo rapporto rappresentato di desiderio e negazione del corpo e del sesso) c’è la grande novità dello show stile terzo millennio: l’intimità negata. La Rossi si intrufola nel privato, lo mette in scena, spettacolarizza ciò che non ha niente di spettacolare. Mentre dipinge una casa e le azioni di chi la abita, in realtà punta l’indice verso chi osserva il quadro, verso chi apprezza il taglio poiché abituato alle logiche dello spy- show.
Maurizio Sciaccaluga dal catalogo EyeWhispers, Vicenza 2004
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E’ nello spazio della casa che si delinea con inaspettata monumentalita’ il corpo femminile ritratto da Elisa Rossi. Nella sua pittura si intrecciano spesso due elementi che parrebbero incompatibili, elidersi a vicenda. Da una parte il luogo rituale bagno, asettico, piastrellato, geometrico, claustrofobico: spazio della purificazione contemporanea, di una nudita’ allontanata, riflessa nel lucido piano dei rivestimenti. Dall’altra il maniacale compiacimento per la trina, il merletto della biancheria intima: quasi che attraverso la trascrizione pittorica l’artista recuperasse un aspetto artigianale del lavoro femminile, con la stessa scrupolosa perizia, la stessa paziente precisione. In realta’ si tratta di due aspetti dello stesso racconto, in cui progressivamente emozioni e inquietudini vengono demandate al gioco dialettico e carico di suggestive ambiguita’, che si viene a instaurare tra l’ elemento volumetrico-spaziale (una forma ossessivamente depurata e definita) e il vibrante e sottile chiaroscuro che anima la superficie. Il voyeurismo autoriflessivo di Elisa Rossi si concentra sempre piu’ nel microcosmo della scrittura pittorica.
Vanja Strukelj, dal catalogo confini, Parma, 2006
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La figurazione meticolosa e lucida fino all’iperealismo di Elisa Rossi risucchia chi osserva verso lo spazio rappresentato nel quale accadono micro storie di quotidiana intimità che la pittura rivela, svelandone accadimenti e brani inconsueti…
La pittura serenamente figurativa di Elisa, figlia del minimalismo di un mondo di immagini post-moderno, non dichiara intenzioni comunicative particolari né ha contenuti specifici di alcun tipo da veicolare se non quello del suo stesso manifestarsi, nella forza delle sue qualità intrinseche.
Elisa, che da pochi anni ha concluso gli studi accademici, dipinge soggetti che ha in precedenza fotografato. Dunque, non dal vero, ma su immagini prescelte e costituite dallo scorcio visivo già operato.
Questo procedimento le consente di isolare quello che sarà nel suo dipingere lo sguardo della memoria e le offre le pose che i gesti delle azioni più banali (come la depilazione o la cura del corpo della sorella nella sala da bagno di casa…) rendono modelli perfetti per la restituzione pittorica della fisicità di un corpo.
Intere sequenze di suoi dipinti ritraggono infatti – in inquadrature audaci e dentro lo stesso ambiente silenzioso – i gesti minimi del corpo di una giovane donna, indagato dalla resa lenta della pittura ad olio con distacco affettuoso che ne preserva la sensualità da ogni malizioso voyerismo.
A lei, capace di scendere con uno sguardo lentissimo (da blow-up cinematografico) sulla pelle di un corpo come sulle minime pieghe di un tessuto o sui dentelli di un pizzo di raffinata lingerie per restituircelo come brano di pittura, poco sembra importare ogni altra considerazione sul suo lavoro, che non sia il suo stesso appassionato fare pittura nelle sequenze seriali da lei progettate.
Nessuna ansia emana da questa sospensione spazio-temporale e dai silenzi pur squarciati da sciabolate di bianchi esaltano la dialettica chiaroscurale e le gradazioni tonali basse; i colori invece si ravvivano nella serie dei cosiddetti Corredi, per i quali Elisa usa cromie e tonalismi raffinati che traducono fruscii di tessuti in pieghe instabili e spingono forse vero la sensualità immaginata dei corpi su cui quei tessuti stazionano…
A Elisa Rossi che attrae sorridente nel niente apparente di belle forme, sembra piacere soprattutto questo: il poter disporre della fisica felicità della pittura per far rivivere di vita propria anche i frammenti di vero che lei, demiurgicamente, ricrea nell’altrove raggiunto dalla buona pittura.
Nadia Raimondi, dal catalogo Binomi, Modena 2007.
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Elisa Rossi riprende invece con una pittura figurativa legata all’iperrealismo il significato latino della parola Persona in quanto maschera. Gli indumenti divengono nei suoi quadri in bianco e nero l’immagine esteriore e sociale e non sempre veritiera che viene presentata agi altri, simboli di idee e antichi valori. Nella sua atavica ricerca di una femminilità che non mostra mai il suo volto, colta in ambientazioni intime e riservate, l’autrice sottolinea con evidenza l’aspetto fattivo e artigianale dell’esecuzione, la meditazione del comporre come una moderna Penelope che tesse la sua tela, valorizzando la ripetitività assurta quasi a preghiera del gesto lento, un percorso catartico e di purificazione del sè. La coperta della nonna che protegge e nello stesso tempo nasconde, si accosta al taglio simbolico di un lenzuolo che predomina sulla figura e sembra quasi prendere vita propria, accanto a raffinatissimi disegni a grafite ed olio su carta, dove la persona in quanto tale non è più presente ma lascia indovinare le sue tracce.
Francesca Baboni dal catalogo Tissue, Reggio Emilia 2014
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L’artista di cui vi parlo oggi è Elisa Rossi, nata a Venezia nel 1980.Sin da giovanissima nutre una grande passione per il disegno, tanto da considerare naturale la scelta del liceo artistico. In seguito completa la sua formazione all’Accademia di Belle Arti di Venezia, diplomandosi con una tesi su Nan Goldin. La fotografa americana stabilisce un nesso inscindibile fra arte e vita quotidiana, rappresentando gli effetti del passaggio del tempo e delle abitudini non sempre ortodosse sui suoi personaggi.Elisa Rossi, parte da qui. Fotografa ciò che la circonda, in particolare sua sorella Giulia catturata nell’intimità dell’ambiente familiare, e costruisce una sorta di bozzetto preparatorio.Poi procede alla realizzazione del dipinto. Poco sensibile all’estetica dell’iperrealismo, però, sceglie una pittura tonale: in questo modo l’immagine richiama, più che la sfera della realtà, quella della memoria e assume perciò un carattere atemporale.Inoltre, grazie alla luce che si ispira a quella di Jan Vermeer, la quotidianità assume un tono magico.Nella serie “Divieto di accesso”, l’atmosfera si fa più inquieta: sembra che la protagonista si senta minacciata e si neghi ai nostri occhi. Il dialogo con lo spettatore viene interrotto, come a indicare il bisogno di recuperare l’intimità violata dal nostro sguardo. Oppure, la giovane è simbolicamente ferma sulla soglia.Parallelamente a quella sulla persona, la ricerca di Elisa Rossi si concentra anche sui tessuti. La ripetizione del gesto nell’esecuzione dei merletti, ossia di una trama, parola che può essere usata anche per la scrittura, diventa come una meditazione sul gesto pittorico, che diventa anche riflessione intima.Non a caso la serie successiva si chiama“Scrittura privata”, titolo che indica un tipo di contratto fra due persone, ma che, nel suo caso è anche comunicazione, dialogo interiore, intimo.In “Personae”, che tradotto dal latino significa “maschere”, compaiono i vestiti che ad un tempo proteggono ma contemporaneamente costringono a una sorta di recita. Gli oggetti della quotidianità assumono anch’essi valenza simbolica: lo stendino diventa un nascondiglio, una protezione, la lavatrice indica un momento di pulizia e rinnovamento, le forbici tagliano i rami secchi preludendo ad una nuova fioritura, la chiave segna la fine del “divieto di accesso” di qualche anno prima.Infatti, nella serie “Limine”il tema è quello della soglia, il punto di incontro e di separazione di due realtà:seduta su un tappeto, luogo di preghiera delle religioni orientali, la donna è impegnata a sciogliere i nodi di una corda, mentre altrove si copre il capo con un fazzoletto di pizzo. Sono espressioni di spiritualità che segnano il confine fra il mondo mistico e quello materiale.Elisa Rossi, insomma, schiudendoci la parte più intima del suo animo, in realtà ci conduce in un viaggio fatto di momenti eterni.
Sergio Mandelli, Praline, 2016
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Per Elisa Rossi l’arte è una sorta di meditazione, un’indagine del proprio io, un codiceespressivo che la porta a comunicare con l’esterno.Il punto di partenza di Elisa avviene con l’introduzione di una pittura decorativa che prende spunto da elementi ornamentali ispirati dai famosi ricami e merletti veneziani, un mondo a lei noto, che ha sempre visto fin dall’infanzia, rappresentati nei minimi particolari con delicata minuzia. Per l’artista questi elementirappresentano la sua intimità di donnadove sicela, protetta dietro questi veli e indumenti esprime la sua identità. In mostra sono presenti diversi esempi ma anche l’evoluzione che ne segue, il passaggio successivo, quello della corporeità; qui lei/le sue donne si mostrano nella loro fisicità, non più sotto codici, si mostrano con serenità in tutta la loro bellezza e femminilità. Un altro passo ancora, la rappresentazione di soggetti anche maschili, contestualizzati in epoche diverse della storia nella loro pienezza e temporalità.
La prerogativa che caratterizza la ritrattistica di Elisa Rossi però permane cioè l’esigenza di celare l’identità del volto e dello sguardo non permettendo un incontro diretto con l’Io più intimo che deve rimanere segreto ad occhi indiscreti.
Brenda G.Oliva in occasione della mostra Introspezioni, Treviso, 2018
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Libertà ed eroticità nelle tele di Elisa Rossi
“La pittura di Elisa Rossi non si occupa di ricostruire degli aneddoti, ma si impegna a costruire fatti pittorici: non tenta, infatti, di riproporre in maniera pedantesca il mondo, ma di creare un universo autosufficiente. Nei suoi lavori esiste la possibilità istantanea di isolarsi dalla meccanicità quotidiana e la particolarità dei suoi personaggi è quella di riuscire a dar vita ad una dicotomia tra forma pura e realtà. Le sue figure sono rappresentate con precisione iperrealistica, ma il loro significato, più che un elogio della scrupolosità tecnica moderna, sembra voler essere una denuncia della stilizzata libertà contemporanea. Le sottili pennellate dell’autrice sono un tentativo di evasione dei soggetti rappresentati, evocandone la possibilità di costituirsi in una dimensione di pura forma, dove si annulla la pesantezza della giornata appena trascorsa, del riscontro reale. L’immobilità costretta dalla pittura è in realtà calcata azione: le donne di Elisa si spogliano degli orpelli che quotidianamente devono indossare e non appartengono più ad una stretta categorizzazione concettuale. Nella dimensione puramente formale che si viene a modellare il tempo esiste solo come estensione dello spazio occupato dai soggetti che finalmente si prendono cura di sé. La solitudine li caratterizza, ma è un sentimento positivo, un’armonia intrisa di intimità: le donne raffigurate sono racchiuse in spazi ristretti, ma domestici e familiari: rappresentano la garanzia che il mondo sta lì fuori e per assurdo vivono racchiuse nell’unica finestra di libertà che gli è concessa“.
“La nudità è qui un ossimoro, è l’anti-nudo par excellence. Non c’è spazio per un riferimento sessuale, vi si può piuttosto rintracciare un’eroticità primordiale: quella del piacere smarrito della libertà, della repressione operata sul Soggetto dalle redini della Civiltà.
Ecco che i corpi di Elisa prendono vita scivolando dolcemente dalle fibre del pennello: essi possiedono tutta la lentezza di un’ansia immobile e dopo tanto tempo sembra che possano concedersi un riposo. Le donne di Elisa sono finalmente serene: coperte, ma soprattutto protette, dalla fissità materiale dell’olio su tela“.
Ilaria Rebecchi, 2018